“L’invasione della Jugoslavia: una lettura diversa della storia”, l’intervento del prof. Pilotto su “Il Piccolo”

Riportiamo il contributo del prof. Pilotto, consigliere direttivo del nostro Sodalizio, apparso sul quotidiano "Il Piccolo" il 16/04/2021. Analisi storica sui tragici eventi occorsi nella regione balcanica nel 1941.

L’invasione della Jugoslavia: una lettura diversa della storia
Risposta a Raoul Pupo e a Marina Rossi

di Stefano Pilotto

Il recente ottantesimo anniversario dell’inizio delle operazioni militari italiane e tedesche nel Regno di Jugoslavia (6 aprile 1941) ha dato spunto ad alcuni storici – fra i quali in primo luogo Raoul Pupo e Marina Rossi – di riprendere la questione e di darne una lettura che – a nostro umile avviso – non è perfettamente aderente alla funzione della Storia. Come sempre, quando si parla di violenze e di massacri, occorre presentare all’opinione pubblica la verità storica nel suo giusto contesto, spiegandone il perché. In ogni decisione, in ogni azione vi è un perché. Attenzione: la spiegazione del perché non giustifica e non assolve alcuna violenza nè alcun massacro, ovviamente, ma il perché deve essere presentato anch’esso, per dare un quadro realmente completo ed esauriente della vicenda storica. Cosa manca, a nostro parere, nella ricostruzione che, sulle pagine de Il Piccolo, qualche giorno fa, hanno presentato Marina Rossi con il suo articolo e Raoul Pupo con la sua intervista? Manca il perché. Riteniamo utile dare una nostra lettura della vicenda, aggiungendo alcuni perché, senza contestare nulla di ciò che è stato detto riguardo le responsabilità delle forze tedesche ed italiane durante l’invasione e la spartizione della Jugoslavia nel 1941. L’opinione pubblica, a nostro giudizio, dovrebbe tenere in considerazione alcuni aspetti, che non emergono dalle ricostruzioni testé evocate.
1)    L’evoluzione dei rapporti fra Italia e Jugoslavia nel periodo fra le due guerre mondiali. Senza occupare troppo spazio – ma il tema meriterebbe un convegno interessantissimo da organizzare qui a Trieste insieme a storici provenienti dai paesi della ex-Jugoslavia – i rapporti fra Roma e Belgrado furono tesi, fra il 1918 ed il 1920 (periodo relativo alla definizione dei confini, terminato con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920). Tale tensione perdurò fra il 1920 ed il 1924 (periodo dell’evacuazione forzata di Gabriele d’Annunzio e dei suoi legionari dalla città di Fiume, periodo dell’instabilità amministrativa in seno alla città di Fiume, crescita della nozione di “vittoria mutilata” all’interno dell’opinione pubblica italiana, ascesa del fascismo al potere in Italia, accordi di Roma del 27 gennaio 1924 fra Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni con spartizione del Territorio Libero di Fiume fra i due paesi). Gli accordi di Roma del 1924, invero, furono anche accordi di amicizia fra i due paesi, peraltro accomunati dall’intento di evitare qualsivoglia tentativo di restaurazione asburgica nell’area. Dopo il 1924, tuttavia, i rapporti fra Roma e Belgrado non furono idilliaci in ragione del fatto che – soprattutto in ambienti politici croati – si ritenne che gli accordi di Roma del 1924 avevano assunto i connotati di un’imposizione da parte di un paese potente (l’Italia) a danno di un paese meno potente (il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), permettendo all’Italia di annettere la metà più importante del Territorio Libero di Fiume (la città, la costa, la parte più consistente del porto). Nel corso degli anni Venti il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni aderì alla Piccola Intesa con Romania e Cecoslovacchia (fra il 1920 ed il 1921) e si avvicinò alla Francia con un trattato di amicizia firmato il 11 novembre 1927. Dopo il riassetto amministrativo che il Re Alessandro Karađorđević promosse nel 1929 (mutamento del nome da Regno dei Serbi, Croati e Sloveni in Regno di Jugoslavia, mutamento dei limiti amministrativi interni e maggiore accentramento a favore della Serbia all’interno del regno), la consistenza e la stabilità della Jugoslavia vennero messe a dura prova ed il paese si avviò verso una disgregazione che ebbe nell’assassinio del Re Alessandro Karađorđević (9 ottobre 1934 a Marsiglia) il proprio momento di svolta. La deriva autoritaria jugoslava, che già dal 1929 aveva preso forma, si accentuò nel periodo della Reggenza del Principe Paolo, durante il quale la fragilità della corona dei Karađorđević fu parzialmente compensata dalla crescita di influenza di Milan Stojadinović, il quale fu primo ministro e ministro degli esteri del Regno di Jugoslavia dal 1935 al 1939. Gli accordi di amicizia fra Italia e Jugoslavia, stipulati il 25 marzo 1937 fra Galeazzo Ciano e lo stesso Stojadinović, non furono un atto che “confermava la sua falsità” (come ha scritto Marina Rossi: questa è una sua interpretazione confutabile), bensì il risultato di un reale avvicinamento fra due paesi che si avviavano a collaborare nel quadro di una incipiente convergenza di vedute. Tale convergenza di vedute si inserì nello spirito di quel periodo, in cui i paesi autoritari sembrarono esercitare maggiore attrazione sulle popolazioni europee rispetto alle democrazie liberali. L’Anschluss (unione) fra Germania ed Austria (marzo 1938), lo smembramento della Cecoslovacchia (ottobre 1938 – marzo 1939) ed il controllo dell’Albania da parte dell’Italia (7 aprile 1939), seguito dalla firma del Patto d’Acciaio fra Roma e Berlino (22 maggio 1939) posero la Jugoslavia in uno stato di crescente tensione dovuta sia alla decisa azione diplomatica e militare della Germania verso l’area danubiano-balcanica sia alla crescente esigenza croata di ottenere maggiore autonomia nel quadro istituzionale jugoslavo.  Dopo le dimissioni di Stojadinović (4 febbraio 1939), il governo venne affidato a Dragiša Cvetković, meno intransigente di fronte alle rivendicazioni croate, il quale firmò un accordo con i croati, il 25 agosto 1939, ed aprì le porte del governo al loro rappresentante, Vladimir Maček, successore di Stjepan Radić alla testa del partito dei contadini croati. Lo scoppio della seconda guerra mondiale pose la diplomazia jugoslava in una situazione difficilissima: circondata da paesi revisionisti o che si erano avvicinati ai paesi dell’Asse (Ungheria, Romania, Bulgaria, Albania), la Jugoslavia del Reggente Paolo e del governo Cvetković – Maček dovette, fra il 1939 ed il 1941, usare tutti i possibili accorgimenti sia per non inimicarsi le soverchianti potenze vicine, sia per garantire la propria unità statuale e la propria neutralità di fronte al conflitto. In questa incandescente atmosfera politica si arrivò al Patto del Belvedere (Vienna, 25 marzo 1941).
2)    La Jugoslavia travolta dalla seconda guerra mondiale. 
Fra mille esitazioni e mille dissensi interni la Reggenza ed il governo Cvetković – Maček accettarono, il 25 marzo 1941, la proposta tedesca di aderire al Patto Tripartito (un patto di alleanza difensiva fra Germania, Giappone ed Italia, al quale avevano aderito anche Ungheria, Romania, Slovacchia e Bulgaria). La Jugoslavia, in cambio, ottenne ciò che altamente desiderava e cioè la promessa del rispetto della sua neutralità e dell’integrità delle sue frontiere, oltre alla prospettiva di ottenere, dopo la prevedibile sconfitta della Grecia, il controllo di tutta la valle del fiume Vardar fino al porto di Salonicco. Queste attraenti promesse tedesche indussero Belgrado ad accettare di aderire al Patto Tripartito, anche se il Reggente Paolo dichiarò chiaramente che non avrebbe potuto garantire che la notizia dell’adesione jugoslava al Patto Tripartito non provocasse una sollevazione popolare nelle varie aree del paese. E tale sollevazione ebbe puntualmente luogo dopo la firma di adesione: il colpo di stato del 26-27 marzo 1941 in Jugoslavia provocò la caduta del governo Cvetković – Maček, la detronizzazione del reggente Paolo, la confusione interna con la presa del potere da parte del Generale Dušan Simović, che causò la reazione di Germania ed Italia e la loro decisione di intervenire in Jugoslavia, aprendo un fronte balcanico che, durante quattro anni di guerra, fu teatro di inaudite violenze, compiute da tutte le parti coinvolte. La Jugoslavia venne invasa e smembrata. Gli italiani amministrarono la provincia di Lubiana, la Dalmazia, le Bocche di Cattaro e controllarono un Montenegro ingrandito. I tedeschi amministrarono la Slovenia settentrionale e controllarono una Serbia rimpicciolita. Gli albanesi amministrarono la Serbia sud-occidentale (il Kosovo e Metohia). Gli ungheresi amministrarono la Serbia nord-orientale (il Banato). I bulgari amministrarono la Serbia sud-orientale (la Macedonia settentrionale). Al centro venne creato un grande stato sovrano croato, alleato della Germania e dell’Italia, diretto da Ante Pavelić e dal suo movimento ustaša. 
 
Lo smembramento della Jugoslavia dopo le operazioni militari tedesche ed italiane dell’aprile 1941

Per quattro anni in Jugoslavia si svilupparono tre principali lotte interne (i cetnici serbi monarchici diretti da Draža Mihailović contro gli ustaša croati guidati da Ante Pavelić e contro i comunisti jugoslavi diretti da Josip Broz Tito), che si sovrapposero a due lotte esterne (i cetnici contro italiani e tedeschi; i comunisti contro italiani e tedeschi). Fu una tragedia per la Jugoslavia, il tramonto delle speranze dei Nikola Pašić e degli Ante Trumbić, il crepuscolo degli ideali dei Karađorđević e di tutti coloro che si erano riuniti a Corfù nel 1917 durante la tempesta della prima guerra mondiale sognando la costituzione di uno nuovo stato serbo-croato-sloveno. Nella spirale inarrestabile delle lotte intestine e nella guerra di liberazione contro tedeschi ed italiani l’odio crebbe reciprocamente seguendo una catena micidiale di azioni e reazioni e condusse ad operazioni di inusitata violenza, che oltrepassarono ogni limite. In questi livelli di violenza né i tedeschi né gli italiani furono – peraltro – i più terribili, i più spietati, i più agghiaccianti. Occorre, quindi, raccontare questa tristissima pagina di storia, ma non in senso unilaterale, presentando soltanto le violenze degli uni e trascurando quelle degli altri. Il rapporto fra causa ed effetto fu stretto, in relazione ad ogni azione cruenta e ad ogni rappresaglia violenta. Nessuno deve occultare che la Germania e l’Italia condussero una guerra di aggressione nei confronti delle popolazioni jugoslave, ma nella disanima dell’uso della violenza, che è presente in ogni guerra, occorre presentare il quadro completo e permettere all’opinione pubblica di comprendere la situazione reale in cui si trovarono a combattere i soldati e gli ufficiali italiani. Bersagli quotidiani di attacchi da parte delle forze della resistenza jugoslava (attentati, esplosioni, colpi di fucile o di mitragliatrice da parte di cecchini nascosti nella macchia, lotte al coltello, sevizie, stupri), le forze italiane reagirono nel nome del diritto di rappresaglia previsto dal codice militare. Le foto che vengono oggi mostrate per sottolineare la violenza delle forze italiane sono anch’esse esplicite in senso inverso. Le foto che ritraggono le fucilazioni di partigiani jugoslavi o di fiancheggiatori di partigiani jugoslavi avvengono da parte di uomini in divisa militare italiana, soggetti al codice militare di guerra, che prevede la fucilazione dei nemici rei di attacchi sanguinosi contro le forze italiane o contro la popolazione italiana. Ciò significa che tali partigiani jugoslavi – in generale – non furono massacrati in modo sommario appena catturati. Ad essi non furono riservate le sevizie, le torture, le amputazioni fisiche a cui ricorrevano spesso le forze partigiane jugoslave contro gli italiani o gli ustaša contro i serbi ed i comunisti. In altre parole la fucilazione è sì, certo, un atto di violenza, ma non è confrontabile con le atrocità compiute da coloro che a prigionieri vivi italiani riservarono l’eliminazione degli occhi con il coltello o la recisione degli organi genitali o il taglio dei seni alle donne, esposti spesso come trofei seguendo una orribile tradizione medievale. I soldati in divisa dovevano rispettare il codice militare e se lo avessero violato sarebbero stati puniti dai loro superiori. Chi non era inquadrato in una struttura militare non aveva alcun codice da rispettare e poteva permettersi qualsivoglia abuso senza soggiacere ad alcun controllo superiore. La questione dei campi di prigionia deve anch’essa essere chiarita. Gli italiani non attuarono mai stermini premeditati e preparati scientificamente a danno delle popolazioni jugoslave. Le azioni di guerra erano soggette al controllo del codice di guerra ed i prigionieri nei campi di raccolta di Arbe, Gonars, Monigo vennero trattati come prigionieri di guerra: i numerosi deceduti perirono fondamentalmente per malattie e denutrizione, come nella maggioranza dei campi di prigionia. Non vi fu alcuna camera a gas nei campi italiani, il cui obiettivo fosse quello di attuare une genocidio a danno delle popolazioni jugoslave. Gli incendi dei villaggi ebbero luogo ma non per fare tabula rasa della presenza delle popolazioni jugoslave, bensì per contrastare coloro che davano albergo ai partigiani o che li nascondevano. Tutte queste considerazioni – è bene ripeterlo – non mirano a giustificare alcun misfatto da parte italiana, ma a completare un quadro estremamente complesso quale fu quello jugoslavo durante la seconda guerra mondiale. 
In conclusione, presentare esclusivamente le violenze compiute da parte italiana rischia di offrire all’opinione pubblica un’interpretazione parziale ed incompleta dei fatti. Le forze armate italiane, durante tutte le epoche storiche – dal periodo del Regno di Sardegna al Regno d’Italia, dal Fascismo alla Repubblica Italiana – hanno sempre servito con disciplina, serietà e senso di responsabilità l’autorità politica che le controllò e diresse. Se proprio si vuole ricercare la fonte di ogni responsabilità per i misfatti compiuti forse è opportuno risalire all’autorità politica e non infangare l’onore delle forze armate, che hanno sempre servito il paese – nel bene come nel male – con senso di sacrificio, equilibrio e straordinaria umanità. Non è un caso che dalle guerre di indipendenza del XIX secolo alle battaglie dell’Isonzo nella prima guerra mondiale, dalle molteplici vicende della seconda guerra mondiale alle missioni multinazionali di pace in Libano, Balcani, Mediterraneo e Afghanistan della fine del XX secolo le forze armate italiane abbiano dato costantemente la misura delle proprie capacità e del proprio equilibrio, della propria umanità e della propria empatia con il mondo intero. Criminalizzarle in modo tendenzialmente insinuante potrebbe essere interpretato da taluni come un colpo inferto sotto la cintura all’onore e alla dignità dell’Italia. E ciò, in nome di una possibile ossessione ideologica e a detrimento dell’autorevolezza storiografica. Il ginepraio balcanico fu sempre teatro tristissimo di efferate violenze, che dalle epoche medievali si protrassero periodicamente fino agli anni Novanta del XX secolo e cioè fino al processo di decomposizione della Jugoslavia. Se il periodo di osservazione si limita alla seconda guerra mondiale occorre includere tutti i tragici eventi intercorsi in quel calamitoso periodo (come dimenticare che circa 700.000 serbi vennero uccisi in gran parte dagli ustaša croati con metodi che farebbero rabbrividire chiunque, come indica il campo di Jasenovac), fino alla loro appendice conclusiva, vale a dire fino agli stermini nelle foibe istriane e carsiche da parte dei partigiani comunisti jugoslavi. Proviamo a ricordare anche questo.

(Foto Wikipedia)