L’Irredentismo di Diego Redivo

L’IRREDENTISMO

L’unico termine politico italiano adottato anche sul piano internazionale per descrivere fenomeni analoghi, comuni a molti altri Stati, è quello di “irredentismo”; un termine dal sapore quasi religioso, ispirato dalla “religione della Patria” tipica del Risorgimento.

Il fenomeno dell’irredentismo ebbe una fondamentale importanza nella storia continentale in quanto, mentre due imperi secolari come quello asburgico e quello ottomano andavano progressivamente incontro alla dissoluzione sulla spinta delle rivendicazioni nazionali, esso era destinato a costituire l’elemento esplosivo che avrebbe fatto crollare l’Europa degli Stati a favore dell’Europa delle Nazioni.

Il suo significato originario indicava la volontà degli italiani ancora soggetti alla sovranità austriaca, all’incirca 800.000 sparsi tra il Trentino, la Venezia Giulia (nome creato nel 1863 dal glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli per indicare patriotticamente e unitariamente il Friuli Orientale comprendente Gorizia, il Litorale austriaco gravitante su Trieste e l’Istria con Fiume e la regione quarnerina) e la Dalmazia, di unirsi al nuovo Stato nazionale italiano e di condividerne i destini.

Peraltro, l’irredentismo presentava molteplici indirizzi e obiettivi confinari che superavano i limiti del problema asburgico. Si pensava, così, sia pure con minor vigore, anche ad altri territori dov’era presente una consistente comunità italiana (Malta, Corsica, Nizza, Savoia, Canton Ticino) e, idealmente, si spaziava da un irredentismo di matrice democratica e repubblicana (ispirato dal pensiero mazziniano e dall’azione garibaldina, nel cui ambito esso era nato in funzione antimonarchica dopo l’insoddisfacente conclusione della III guerra d’indipendenza che nel 1866 aveva bloccato Garibaldi ormai prossimo a raggiungere Trento) ad uno di tipo massonico, formato dalla classe dirigente liberale e monarchica, e, in prossimità della prima guerra mondiale, ad uno nazionalista-imperialista, che ragionava in termini non tanto patriottici quanto strategici. Ma vi era anche – Scipio Slataper e Giani Stuparich ad esempio, legati all’ambiente della “Voce” fiorentina – chi proponeva un irredentismo di tipo culturale, che non riteneva fondamentale l’appartenenza allo Stato nazionale, pur rivendicando un pieno sviluppo dell’identità culturale italiana degli irredenti.

Le sue fondamenta mitologiche risalgono al 1882 quando il Regno d’Italia, isolato sul piano internazionale, stipulò la Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria, ponendo fine alla tradizione austrofoba risorgimentale, fra l’altro proprio nell’anno in cui venne a mancare Garibaldi, l’eroe dell’unificazione nazionale. Lo sconforto degli irredenti portò al martirio del triestino Guglielmo Oberdan che, impiccato il 20 dicembre dello stesso anno per un mancato attentato contro l’imperatore asburgico, fornì alla causa irredentista l’elemento sacrificale da esibire nelle future lotte. La situazione allora venutasi a creare fece capire che non era il caso di sperare in fatti eclatanti che modificassero in tempi brevi la realtà, per cui s’intraprese la strada della “difesa nazionale”, fatta di un’azione quotidiana, costante, di crescita culturale e di consapevolezza politica in attesa di giorni migliori.

Nacquero così la “Pro Patria” e, al suo scioglimento, la “Lega Nazionale” (1891), la cui azione nel Trentino, nella Venezia Giulia e in Dalmazia si svolgeva, soprattutto, attraverso l’erezione di un sistema scolastico volto, in special modo, a raggiungere quelle aree confinarie dove più flebile giungeva il suono della lingua italiana, scontrandosi con il contrapposto apparato scolastico messo in piedi dalle omologhe ma rivali associazioni tedesche e slave.

Caratteristica peculiare dell’irredentismo giuliano fu l’apporto della comunità ebraica che – in particolare quella giunta da Venezia nel 1775 – già dagli sconvolgimenti ideologici del XVIII secolo aveva convenuto con i nuovi valori borghesi del liberalismo e dell’idea di nazione; valori che implicavano una visione del mondo e un’educazione prevalentemente laica che a Trieste voleva dire adesione al modello culturale italiano predominante in città. Tale componente ebraica giunse al controllo del partito liberalnazionale e i suoi esponenti di spicco, Teodoro Mayer e Felice Venezian, costituirono le colonne portanti del movimento nazionale a cavallo tra Ottocento e Novecento. Mayer, fondando il quotidiano “Il Piccolo” nel 1881, fornì alla causa uno straordinario strumento di pressione e di condizionamento dell’opinione pubblica ma fu Venezian che diede l’indirizzo politico sia operando nella massoneria che attraverso i vari organismi patriottici, riuscendo a smorzare le diversità ideologiche e sociali dei suoi elettori per privilegiare unicamente il sentimento nazionale, sapendo sfruttare abilmente le battaglie in favore dell’università italiana a Trieste, che costituirono il vero elemento unificante della comunità austroitaliana d’inizio secolo. Inoltre, Venezian riuscì a superare anche il difficile momento derivato dall’affare Dreyfus, da cui si dedusse che, pur in presenza di una dinamica assimilatoria e di un sentito patriottismo ebraico nei confronti della nazione che li ospitava, anche nella società occidentale riemergeva periodicamente l’antisemitismo. Venezian risolse brillantemente, almeno per il caso triestino, la questione, cogliendo la valenza antiirredentistica di tale antisemitismo, che a Trieste appariva come uno strumento d’opposizione alla sua persona e all’idea nazionale che egli incarnava.

Quella delle terre irredente era, dunque, una questione scottante per la politica italiana in ambito europeo, che, nonostante dissimulazioni e adattamenti derivati dalla realpolitik, mai venne dimenticata in quanto rappresentava il mito dell’incompiuta unità nazionale e, progressivamente, anche quello della necessaria espansione italiana là dove Venezia aveva dominato. Alla vigilia della prima guerra mondiale il ruolo di nuova dominatrice adriatica poteva averlo solo Trieste, che nel periodo 1890-1914 ebbe un grande sviluppo economico che portò ad un processo d’urbanizzazione d’altre etnie – in particolar modo slovene e croate – che la fecero diventare uno dei luoghi critici della questione nazionale nell’Austria-Ungheria e anche, coinvolgendo interessi italiani, uno dei motivi della crescente tensione tra le potenze europee. Questa situazione, percepita come un assedio straniero all’identità italiana della città, spinse lo stesso Vittorio Emanuele III ad usare l’irredentismo come arma diplomatica da far valere nei rapporti internazionali.

Gli avvenimenti del periodo 1903-1915 ne fornirono spesso l’occasione. I tumulti studenteschi di Innsbruck – nei quali fu sparso sangue italiano -, l’irrisolvibile questione dell’università italiana a Trieste – utile per mantener viva la tensione irredentistica – e la politica filoslava del governo austriaco nella Venezia Giulia furono motivi formidabili per il risveglio dell’orgoglio nazionale, su cui facevano leva anche i molti studenti irredenti venuti a laurearsi – e a manifestare – nel Regno.
Vi erano, però, anche altri interessi in gioco che riguardavano il ruolo dell’Italia come grande potenza. L’azione imperialistica germanica con il progetto ferroviario Berlino-Baghdad servendosi dell’Austria-Ungheria, lo sfacelo dell’impero ottomano, la spinta verso il Mediterraneo della Russia sull’onda del risveglio delle nazionalità slave e la competizione europea per la conquista di nuovi mercati commerciali e industriali fecero della penisola balcanica il detonatore che nel 1914 portò allo scoppio della guerra. In sintonia con questa evoluzione internazionale, nel corso del primo decennio del XX secolo emerse una nuova forma d’irredentismo, promossa dai nazionalisti italiani (Enrico Corradini, Luigi Federzoni, Alfredo Rocco ecc.), che stravolgeva, però, le originarie idealità risorgimentali del fenomeno, in quanto aveva individuato nella penisola balcanica il fulcro di una nuova politica estera italiana basata sull’imperialismo che doveva fondere i valori ideali della Nazione con quelli economici e strategici necessari per la lotta tra i popoli. Per il dominio dell’Adriatico diventava, dunque, vitale il possesso di Trieste. Il sogno degli irredenti di un prossimo intervento italiano non appariva più tanto remoto; da ciò l’emergere di una nuova generazione d’irredentisti (Ruggero Fauro Timeus, Mario Alberti, Spiro Xydias, Attilio Tamaro) che, ben intuendo l’evolvere dei tempi nuovi, operarono affinché l’irredentismo abbandonasse le limitazioni nelle aspirazioni e la prudenza nell’azione per incanalarsi sulla strada politica del nazionalismo che avrebbe permesso, a loro dire, una soluzione definitiva e vantaggiosa della questione.

Meno complessa di quella giuliana era stata nel tempo la questione nazionale nel Trentino, dove la netta separazione geografica e culturale con la popolazione di lingua tedesca veniva, però, sempre più spesso messa in discussione dall’invadenza pangermanista. Proprio in questa terra apparve una delle figure più fulgide della storia nazionale – Cesare Battisti – che partendo da posizioni vagamente irredentiste, attraverso l’adesione al socialismo – di cui fu deputato al Parlamento di Vienna – giunse a propugnare quel “socialismo nazionale” in grado di fondere gli aspetti, quasi sempre collidenti, della società di massa, ovvero questione sociale e questione nazionale, giudicando l’impero asburgico un residuo del medioevo che doveva essere abbattuto poiché rischiava di compromettere le conquiste democratiche della civiltà occidentale. La sua scelta di rifugiarsi in Italia allo scoppio del conflitto per incitare il Regno all’intervento al motto di “ora o mai più”, simboleggia al meglio l’aspirazione degli oltre duemila volontari irredenti che fuggirono dall’Austria-Ungheria per arruolarsi, e molti di loro morire – si pensi, fra i tanti, a Scipio Slataper, Nazario Sauro, Carlo Stuparich, Ruggero Fauro Timeus, Fabio Filzi, Damiano Chiesa -, nelle fila dell’esercito italiano per liberare le loro terre. Un volontarismo che, sulla scia del pensiero battistiano, superava qualsiasi appartenenza ideologica allo scopo di conseguire l’agognato obiettivo dell’unificazione nazionale. Un sogno per il quale il politico e geografo trentino, catturato dagli austriaci, venne impiccato nel Castello del Buonconsiglio di Trento il 12 luglio 1916, diventando immediatamente l’emblema di quella storia dell’irredentismo che da Oberdan a Battisti aveva ampiamente dimostrato – e legittimato per sempre – l’inestinguibile volontà di appartenenza delle popolazioni delle “terre irredente” – il Trentino, Trieste, Gorizia, l’Istria, Fiume e la Dalmazia – allo Stato nazionale italiano.

Diego REDIVO

La Lega Nazionale è presente alla mostra A 90 anni dalla Grande Guerra. Arte e memoria, che si svolge a Roma alla GATE Termini Art Gallery dal 17 marzo al 31 luglio 2005, con un articolo sull’irredentismo del socio Diego Redivo.
Ne riproponiamo il testo, che compare nel catalogo della mostra pubblicato dalle edizioni Viviani di Roma.