Una Riflessione…
del prof. Stefano Pilotto
La giornata del 1° maggio, in tutto il mondo, è istituita per celebrare i lavoratori, per valorizzare il senso del lavoro nella sua evoluzione storica, per sottolineare le imperfezioni legislative, le incongruenze, i successi. Si tratta di una giornata che, in generale, viene curata dai cittadini vicini alle idee socialiste e comuniste, ma anche da coloro che, in senso più ampio, si identificano con idee più moderate. Si tratta di una giornata le cui manifestazioni di piazza vengono sollecitate soprattutto dai sindacati dei lavoratori. Ogni sindaco, nei paesi democratici ed avanzati come l’Italia, concede volentieri gli spazi per la libera manifestazione dei cittadini nel segno del lavoro, onde alimentare dibattiti utili per il futuro. Si tratta di una giornata di festa, in cui non si lavora. A Trieste, tuttavia, da qualche anno a questa parte, la giornata del primo maggio ha assunto una funzione perversa, non desiderata e pericolosa. Oltre ai lavoratori, ai sindacati, ai cittadini che si riuniscono in Piazza dell’Unità d’Italia per celebrare (spesso con il garofano rosso all’occhiello) la nobiltà del lavoro, si inseriscono degli elementi diversi, infiltrati, che nulla hanno a che vedere con le motivazioni del primo maggio e che sfruttano tale giornata per celebrare un altro evento storico, associato ad un altro primo maggio: si tratta, in generale, di cittadini di estrazione slava (sloveni in particolare, appartenenti alle comunità slovene dei territori vicini a Trieste) o italiani che condividono le idee e le impostazioni di tali cittadini sloveni, i quali si presentano in piazza con grandi bandiere della ex Jugoslavia di Tito, aventi una più che visibile stella rossa al centro. Cosa rappresenta tale simbolo del passato? Rappresenta il movimento dei guerriglieri partigiani di Tito, che condussero la lotta partigiana contro le forze dell’Italia fascista e della Germania nazionalsocialista durante la seconda guerra mondiale.
Tale movimento, come ben si sa, non si limitò a vincere la guerra (come era nel suo diritto), giunse per primo a Trieste, il primo maggio del 1945, a guerra ormai terminata ovunque, occupò la città, cercò di prepararne l’annessione alla Jugoslavia e la sottomise a quaranta giorni di terrore, durante i quali si verificarono deportazioni di massa, stermini di popolazioni prevalentemente italiane nelle foibe carsiche ed istriane, violenze impunite ed incontrollate, patenti violazioni dei diritti dell’uomo ed umiliazione della dignità umana. Il ricordo di tali giornate non è certo svanito ed è sempre presente nell’animo delle famiglie triestine, ha da sempre i connotati di un incubo traumatizzante. Il dilemma si presenta: come si deve comportare uno stato democratico di fronte a tali particolari espressioni storico-politiche, non autorizzate dalle autorità municipali e governative? Come si interviene di fronte ad una subdola manipolazione di una manifestazione di massa, che, peraltro, era stata legittimamente autorizzata nell’ambito dei fini per i quali era stata concepita? Lo stato democratico deve rispettare tutte le idee politiche, qualsivoglia esse siano, ma ha il diritto di vietare manifestazioni lesive della memoria nazionale, che assumano i connotati di un insulto, di un oltraggio e di una ulteriore ferita per la stragrande maggioranza della popolazione locale. Il famoso capo storico del Partito Socialista Italiano, Pietro Nenni, quando esercitò le funzioni di Ministro degli Affari Esteri del Governo provvisorio italiano, nel gennaio del 1947, utilizzò un’espressione al tempo stesso efficace e drammatica, per comunicare al mondo come il popolo italiano considerava il testo del Trattato di Pace, che sarebbe stato firmato il 10 febbraio 1947: Pietro Nenni scrisse, nella sua comunicazione alle rappresentanze diplomatiche italiane nel mondo, il 20 gennaio 1947, che il testo del trattato di pace “urta la coscienza nazionale”. Espressione impeccabile. Riprendendo le parole di Pietro Nenni, si può affermare che le manifestazioni abusive dei filotitini in Piazza dell’Unità d’Italia a Trieste, il primo maggio, in occasione della festa dei lavoratori, manifestazioni che esprimono nostalgia e sostegno in relazione all’ingresso delle forze partigiane jugoslave a Trieste, il primo maggio 1945, “urtano la coscienza nazionale, soprattutto triestina” e, di conseguenza, devono essere democraticamente vietate. Se tale divieto non venisse espresso e fatto rispettare dalle forze dell’ordine, in futuro, il precedente dei filotitini potrebbe pericolosamente legittimare l’utilizzo di ben altre bandiere, simbolo di idee e movimenti del passato, che potrebbero essere esposte in altri luoghi, in riferimento di altri eventi tragici, che, in modo analogo, urterebbero altre coscienze nazionali, a detrimento dell’auspicata pace sociale europea.
Stefano Pilotto
1 maggio 2017