La grande riservatezza sulla firma a villa Leopardi dei ministri degli Esteri Rumor e Minic
1975: l'Italia rinuncia alla zona B
Il crollo dei partiti tradizionali a Trieste portò alla nascita del Melone
di Roberto Spazzali
La crisi politica triestina, la più grave del secondo dopoguerra, generata dalla protesta cittadina contro il Trattato di Osimo e il relativo accordo economico che prevedeva la costituzione di una zona franca industriale a cavallo del confine, sul Carso, è stata a lungo sottovalutata dalla politologia.
Fu la prima crisi, senza ritorno, del sistema partitocratrico incapace di interpretare gli umori di una città che si divise e che fece sorgere un movimento d'opinione capace di trasformare le firme raccolte in calce a una iniziativa di legge popolare per l'istituzione di una zona franca integrale in un movimento politico, la Lista per Trieste.
La città, in quell'autunno del '75, dava vita a un processo di autorappresentazione attraverso le pagine de «Il Piccolo» di Chino Alessi, fatto di lettere, dibattiti, assemblee pubbliche, mettendo in discussione le prospettive sul futuro con scelte che risulteranno radicali e che porteranno negli anni successivi a un profondo isolamento di Trieste rispetto il contesto politico nazionale. Una città che fu trattata da una parte non lungimirante dell'opinione pubblica italiana come senile, sclerotica, veteronazionalista, e si arrivò a dire che la Trieste della protesta, ovvero la borghesia, non aveva fatto un accurato esame di coscienza durante il processo della Risiera. Il quadro era assai più complesso.
La città sarebbe potuta esplodere invece protestò, assai civilmente per quei tempi del facile scontro di piazza: perfino il mondo accademico, salvo poche eccezioni, si schierò compattamente contro la parte economica del trattato. La destra missina, su posizioni antagoniste, avrebbe potuto avere buon gioco, ma va dato atto che lo stesso Almirante evitò che Trieste diventasse un altro campo di battaglia, come Reggio Calabria e L'Aquila; avrebbero potuto avere buon gioco i movimenti indipendentisti, invece la Lista per Trieste non mise mai, né per ripicca né per ricatto, in discussione il nesso nazionale italiano, perché il problema stava all'interno della crisi del sistema dei partiti italiani.
E la crisi fu anticipatrice nello sfascio di alcune forze politiche che persero i propri iscritti e dirigenti prima ancora dei voti, come nel caso del partito socialista che pagò in buona sostanza la sua costruzione artificiale degli anni Sessanta, frutto di convergenze e confluenze, ora tattiche ora opportunistiche, di autonomisti, unitarismi, ex titini, demopopolari: per cui il nucleo fondante il Comitato dei Dieci fu costituito da socialisti, oltre repubblicani, liberali e zonafranchisti della prima ora.
A dar fuoco alle polveri una firma: il 10 novembre 1975, nella villa Diatiauti-Leopardi a Osimo, lontano da occhi indiscreti e dai clamori sollevati dalle notizie comparse sulla stampa, i ministri degli esteri Rumor e Minic siglavano il trattato italo-jugoslavo col quale fissava in confine di stato la linea di demarcazione tra le Zone A e B dell'ex Territorio Libero di Trieste, nel tratto tra il valico di Pesek e quello di Lazzaretto di Muggia. Per l'opinione pubblica italiana e soprattutto per gli esuli istriani significava una «colpevole» rinuncia italiana a quella residua porzione di Istria che era rimasta in sospeso dopo il Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954, quello che aveva garantito la restituzione all'Italia della provincia di Trieste.
Dell'imminenza di un trattato se n'era parlato dalla fine di settembre e mentre già infuriava la polemica: nell'ottobre 1975 si consumò il psicodramma dalle dichiarazioni alla Camera di Rumor del primo ottobre al Consiglio Comunale dell'8 ottobre, ma allora, a Trieste, alla denuncia non generarono immediati atti clamorosi che invece maturarono dopo che le segreterie politiche del centrosinistra avevano richiamato i propri consiglieri ad una stretta disciplina di partito. L'assenza di dibattito interno, l'eccesso di conformismo e l'accettazione del fatto compiuto misero in discussione le strutture partitiche più deboli. Inevitabile fu invece la difesa del trattato da parte del governo, per opera del Presidente del Consiglio Aldo Moro e del Ministro degli Esteri Mariano Rumor. Alla Camera, la richiesta governativa di sostegno alla conclusione delle trattative passava il 3 ottobre 1975 con 349 voti favorevoli, 50 contrari e 230 assenti. Per la prima volta nel dopoguerra il Pci aveva appoggiato un governo democristiano in materia di politica internazionale. Era un chiaro riferimento alla valutazione che i comunisti avevano dato ai rapporti con la Jugoslavia, in perfetta linea con le aperture di venti anni prima di Togliatti, dopo il disgelo tra Mosca e Belgrado e con la dottrina dell'eurocomunismo.
La questione, poi, della Zona Franca Industriale di Confine era stata negoziata dal Ministero dell'Industria, affidata a un proprio funzionario, il dott. Eugenio Carbone, che negli anni successivi si saprà essere stato un equivoco faccendiere iscritto alla loggia massonica coperta P 2 di Licio Gelli. E di altri faccendieri pronti a tuffarsi nell'avventura della lottizzazione della Zona Franca si parlò subito, avendo sentore del loro prossimo arrivo. A quel punto, poco importava sapere come il Trattato era articolato e a quali principi si ispirava: per la gran parte della popolazione triestina andava respinto. Nel rapido volgere di poche settimane si delineano le seguenti distinte posizioni: la maggioranza delle associazioni degli esuli respinge totalmente il Trattato che chiude ogni speranza sulla Zona B, una posizione sostenuta dalle associazioni patriottiche e d'arma e da tutta la destra italiana, Msi in testa; contestazione della sola parte diplomatica del Trattato da parte dell'associazionismo istriano legato alla Dc ed all'area socialdemocratica e repubblicana; contestazione dell'accordo economico del Trattato da parte degli ambienti universitari scientifici, naturalistici, tecnico-economici, oltre che sindacali. I partiti di centrosinistra e il Pci risultano, sia pur con qualche lieve distinguo, favorevoli all'accordo, mentre le perplessità si incentrano sulla Zfic, perplessità fatte proprie anche dai sindacati.
Roberto Spazzali
il Piccolo 11/11/05